Nel complesso panorama politico di oggi, emerge sempre più la crisi dello Stato-Nazione e la sua metamorfosi in una forma più fluida e globale. Un tema che solleva importanti interrogativi su ciò che consideriamo ancora valori e su che cosa intendiamo comunicare.
LA COMUNICAZIONE DELL’IDEA GLOBALE
La crisi dello Stato-Nazione non può essere circoscritta esclusivamente alla globalizzazione o alle richieste secessioniste, ma nasce da cause più profonde, a cominciare dall’affermazione dell’idea di progresso miscelata con i diritti dell’uomo su scala planetaria.
Questa prospettiva, erede dell’Illuminismo e del pensiero delle élite dominanti, ha ridefinito il panorama politico. E, per riuscirvi, sono state persino giustificate numerose guerre, definite “umanitarie”.

L’idea di globalizzazione ha portato con sé anche una rincorsa al saper fare che ha spazzato via il saper pensare prima di fare.
Si è assistito a un mutamento epocale nell’amministrazione della società. La gestione delle cose ha progressivamente sostituito il governo degli uomini.
Si afferma sempre più l’idea che i problemi politici siano essenzialmente questioni tecniche, per cui vanno affrontate affidandosi a tecnici.
Questo ha alimentato la percezione che le decisioni politiche abbiano perso rilevanza, poiché ci si convince che “non esista alternativa”.
Quante volte abbiamo sentito che non esiste alternativa all’Europa, oppure che non si può correre il rischio di non soddisfare le esigenze dei mercati?
LA FINE DEI VECCHI PARTITI E IL POPULISMO
Il totale distacco dei partiti di sinistra da quelli che erano i loro valori ha reso ulteriormente complesso il quadro.
Un tempo, la sinistra difendeva la causa dei lavoratori, oggi insegue borse e mercati.
Gli stessi stati non sono più attenti come un tempo alle politiche sociali. Anzi, fanno molta più attenzione ai debiti e alle spese.
Ciò ha provocato la nascita di molti movimenti populisti, che hanno preso il posto lasciato dai partiti di sinistra da cui si difendevano lavoratori e classi più deboli.
L’IDENTITÀ COMUNITARIA
Diventa sempre più difficile mantenere una propria identità nel mondo globalizzato, in cui tutto sembra doversi uniformare.
Il problema è che, uniformando tutto a standard di vita elevati, dove tutto funzioni come nei paesi più all’avanguardia, ma anche più ricchi, si emargina sempre più chi è povero e/o vive in aree prive di lavoro, mezzi e strutture adeguate.
In pratica, si stanno creando cittadini di livello superiore e scarti sociali.

COSA VOGLIAMO COMUNICARE
Come abbiamo visto anche durante questi ultimi tre anni, l’idea di comunità non è mai stata in condizioni peggiori. È bastato imporre un lasciapassare durante la pandemia per trasformare molte persone in delatori, spie pronte a denunciare il vicino di casa, il collega, l’amico, persino il fratello.
E nelle guerre? Se muoiono venti bambini sotto una determinata bandiera fanno molto più scalpore di settecento morti sotto un’altra.
Dov’è la nostra umanità? In quale modo comunichiamo la nostra presunta evoluzione in quanto società occidentale?
La sfida vera, se fossimo in un mondo ideale, consisterebbe nel riconoscimento delle molteplici identità che compongono la nostra società. Consisterebbe nel reintrodurre regole di vita che diano spazio alle diversità, alla creatività di ciascuno, alle diverse attitudini.
Al di là della nazionalità, della fede, del pensiero politico, delle ambizioni e delle aspirazioni personali.
E si farebbe di tutto per bloccare la corsa alla stereotipizzazione delle masse e all’omologazione.
CAPITALISMO: BENESSERE O DISTRUZIONE DELLE DIFFERENZE?
Il capitalismo è orientato all’illimitatezza e all’espansione, senza badare al colore politico, alle regioni, alle nazionalità o chissà cos’altro. Il capitalismo punta a fare soldi. È la sua unica regola.
Per arrivare al suo scopo, il capitalismo distrugge le diversità e non si cura dei distinguo sociali.
Se sei povero, sei una palla al piede perché non alimenti la domanda. Se vuoi troppi soldi, sei un problema perché alimenti l’inflazione. Se non produci, sei un difetto sociale che non sta alle regole del gioco. Ovviamente, le regole del capitalismo.
La sua indifferenza ai valori non legati al mercato contribuisce all’omogeneizzazione globale, a scapito delle identità individuali e territoriali.
Allora, se esiste una possibilità di profitto da una guerra, ecco che la guerra diventa umanitaria, giusta, oppure non si definisce guerra, ma lotta. Al terrorismo, a un dittatore o a chissà quale altra entità confezionata ad arte dalle agenzie di comunicazione che servono i potenti.
Ma restano alcune domande: dove vogliamo arrivare? Davvero ci accontentiamo di seguire il flusso del “fare soldi a ogni costo”? Quali sono i nostri valori?
Perché, in quanto occidentali, abbiamo ancora dei valori? Che cosa vogliamo comunicare ostinandoci a comportarci da presunti padroni del pianeta, convinti di saper vivere meglio di altri? Noi che consideriamo chi non produce uno scarto sociale?
