META ABBANDONA IL FACT-CHECKING: UN CAMBIAMENTO EPOCALE PER LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE ONLINE

Mark Zuckerberg ha finalmente alzato le mani.

Dopo anni di politiche che lui stesso ha definito “censura mascherata”, il fondatore di Meta ha deciso di chiudere bottega con i fact-checkers.

Lo ha annunciato il 7 gennaio 2025, mettendo fine a un sistema che più che verificare i fatti sembrava impegnato a verificare quali opinioni fossero gradite al potere di turno.

In pratica, si è reso conto che l’idea di combattere la disinformazione non era altro che un controllo politico della società preteso da certuni.

IL FALLIMENTO DEL FACT-CHECKING E LE SUE CONSEGUENZE

Zuckerberg ha dichiarato che il programma di fact-checking ha mostrato gravi limiti.

I fact-checkers.

Quegli enti esterni che, teoricamente, avrebbero dovuto garantire la trasparenza e la correttezza delle informazioni, ma che, nella pratica, hanno funzionato più come megafoni del potere.

Narrazioni che spesso si sono rivelate tanto solide quanto un castello di sabbia e Zuckerberg l’ha detto chiaramente: troppi errori, troppa parzialità, troppa gente che si è sentita zittita.

Basti pensare alla pandemia: ci hanno detto che il Green Pass avrebbe creato “luoghi sicuri”. Sicuri come? Non si sa. O che chi non si vaccinava aveva un biglietto di sola andata per il cimitero.

Poi è arrivata la guerra in Ucraina: sanzioni devastanti contro la Russia, un esercito russo con le pale perché senza più munizioni e la vittoria dell’Occidente a portata di mano. Tutte balle, come ci hanno dimostrati tempo e fatti.

Eppure, chi osava dubitarne veniva etichettato come “disinformatore” e veniva silenziano, bannato, declassato nelle visualizzazioni dei post.

Dai fact-checkers, naturalmente. Veri e propri guardiani di una certa politica.

Molti fact-checkers hanno adottato un approccio politicamente parziale, erodendo la fiducia degli utenti invece di rafforzarla, con vere e proprie censure nei confronti di chi non era incline ai pensieri unici, anche se si trattava di persone rispettabili e competenti.

Ciò ha avuto un impatto negativo sulla credibilità delle piattaforme, tanto che milioni di utenti hanno scelto piattaforme alternative, cosa che ha spinto Meta a riconsiderare la propria strategia.

COMMUNITY NOTES: LA SVOLTA DEL CROWDSOURCING

E adesso?

Adesso arriva Community Notes, una specie di Wikipedia dei post social, dove gli stessi utenti possono aggiungere e valutare note sui contenuti.

Una soluzione che Zuckerberg definisce rivoluzionaria.

Sarà.

Certo, è difficile fare peggio di quanto fatto negli ultimi quattro anni.

Almeno, con questo sistema il controllo passa, in teoria, agli utenti. La folla al posto degli agenti della propaganda.

Funzionerà? Dipende.

Non è che le masse siano immuni da errori o pregiudizi, ma, se non altro, è un tentativo di tornare a un Internet che non sia solo un’eco delle veline governative.

In pratica, Meta introdurrà un sistema già adottato con successo da X (ex Twitter). Sì, proprio quello che non piace a tanti politici europei e anche a tanti pennivendoli che hanno scelto di fare propaganda anziché informazione.

Ovviamente, la piattaforma dovrà garantire agli utenti che non ci sia la possibilità di censurare post veri e di opinione come è avvenuto in passato.

Non sono passati molti mesi da quando lo stesso patron di Meta si è scusato con gli utenti per la censura che Facebook ha applicato su richiesta dell’Amministrazione di Joe Biden.

Zuckerberg ha sottolineato come questo approccio rappresenti un ritorno alle radici di Internet, pensato come uno spazio aperto, democratico e partecipativo. Non certo uno strumento in mano ai potenti per il controllo delle notizie e delle opinioni delle masse.

IL RAPPORTO TRA POLITICA E SOCIAL MEDIA

Per capire il perché di questa scelta, però, bisogna guardare alla politica.

Negli Stati Uniti, la recente vittoria elettorale di Donald Trump, soprattutto nell’entità del trionfo, ha segnato un cambio di paradigma.

Il messaggio è arrivato forte e chiaro: basta con le censure, basta con le piattaforme che si mettono a fare politica.

Zuckerberg, che non è affatto uno sprovveduto, ha capito l’aria che tira e ha deciso di adeguarsi, tanto che Meta si prepara a spostare la propria base operativa in Texas, per mettere quanti più chilometri possibili da quella California in cui l’ideologia di Biden è ancora tanto forte.

In Europa, invece, si piange e si strilla.

I politici – quelli che amavano le censure – parlano di “rischi per la democrazia”, che tradotto nella lingua comune significa che hanno paura di perdere il controllo di quella grande arena incontrollabile che sono i social.

La recente vittoria elettorale di Donald Trump è un “punto di svolta culturale” che ha evidenziato un crescente malcontento verso le politiche di censura fortemente caldeggiate dal presidente Biden, come denunciato da Mark Zuckerberg pochi mesi fa. (Una delle fonti: qui)

Molti leader politici, soprattutto negli Stati Uniti, hanno accusato le piattaforme social che si avvalevano dei fact Checker di favorire una parte politica a scapito di un’altra, perciò, la mossa di Meta risponde a queste critiche e cavalca un clima politico sempre più orientato alla difesa della libertà di espressione, dopo anni di cecità globale.

Una società realmente democratica non dovrebbe temere il dibattito e le differenze di opinioni, ma anzi promuoverli, riconoscendo che la libertà di espressione è un pilastro fondamentale per il progresso e l’evoluzione, senza se e senza ma.

Qualunque dubbio su questo tema è indice di distanza dal concetto di democrazia.

LE LEZIONI DEL PASSATO: DALLA PANDEMIA ALLA GUERRA IN UCRAINA

Eppure, la storia recente è un monito.

La pandemia e la guerra in Ucraina hanno dimostrato quanto sia pericoloso affidare la verità a pochi attori: ogni volta che si sono seguite pedissequamente le narrazioni ufficiali, il risultato è stato un disastro.

Chi si ricorda ancora delle sanzioni che avrebbero messo in ginocchio la Russia?

Oppure del Green Pass come panacea universale?

Le piattaforme che avrebbero dovuto garantire pluralismo sono diventate amplificatori di una sola voce, che ha raccontato un mare di sciocchezze spacciandole per verità assolute. Con buona pace della libertà di espressione.

Oggi sappiamo, grazie all’ammissione della stessa Pfizer al Parlamento europeo, che non esistevano studi che potessero avvalorare l’introduzione del green pass né ne esistevano a supporto del pensiero dominante dell’epoca. (Una delle fonti: qui)

Analogamente, la guerra in Ucraina ha visto una comunicazione dominata da slogan e propaganda.

L’idea che l’esercito russo fosse sull’orlo della sconfitta grazie alle sanzioni occidentali, tanto da essere costretto a combattere solo con delle pale, si è rivelata una narrazione da propaganda, ma ha contribuito a costruire una falsa informazione funzionale a specifici interessi geopolitici degli Stati Uniti d’America e a spostare ingenti somme verso le fabbriche di armi.

In entrambi i casi, il ruolo dei fact-checkers è stato quello di rafforzare le versioni ufficiali, soffocando chiunque dissentisse per non alimentare un dibattito aperto e informato.

LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE COME CARTINA DI TORNASOLE DELLA DEMOCRAZIA

Zuckerberg ha parlato di libertà di espressione come di un principio fondamentale. E su questo non si può che essere d’accordo.

Una società democratica non si misura dalla sua capacità di zittire, ma da quella di ascoltare anche le voci più scomode.

I social media, pur con tutti i loro difetti, sono uno degli ultimi spazi dove il dibattito è ancora possibile e rinunciarvi significa consegnare il monopolio della verità a pochi, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Una società evoluta si misura dalla sua capacità di garantire libertà di espressione ai cittadini. Questo principio non è negoziabile.

Il rischio di censura, sia essa palese o mascherata da interventi “tecnici” come il fact-checking, rappresenta una minaccia per la democrazia stessa, perciò tale prassi andrebbe abolita per legge.

Nonostante gli errori e le difficoltà, è essenziale preservare lo spazio di Internet come luogo di libera espressione, perciò le piattaforme devono assumersi la responsabilità di promuovere un uso consapevole e responsabile dei loro strumenti, senza però cadere nella tentazione di controllare il dibattito.

CONCLUSIONI

Meta ha fatto una scelta coraggiosa.

Forse non perfetta, ma coraggiosa.

Togliere il controllo ai fact-checkers e restituirlo, almeno in parte, agli utenti è un passo nella direzione giusta. Certo, il rischio di disinformazione esiste. Ma il rischio di censura è ancora più grande e non più sopportabile per chi si definisce democratico.

Una democrazia non ha paura delle opinioni. Le ascolta, le analizza, le contraddice con le argomentazioni, se necessario. Perché il vero pericolo non è la libertà di espressione, ma la sua assenza.

La decisione di Meta di abbandonare il fact-checking e introdurre il sistema Community Notes rappresenta un passo verso una gestione più democratica delle informazioni, visto che gli organi ufficiali sembrano ormai orientati sempre più a propagandare i punti di vista dei propri editori e sponsor, anziché fare informazione.

Tuttavia, questa transizione richiede un impegno serio per garantire che la libertà di espressione non si trasformi in un pretesto per la diffusione di disinformazione, perciò è necessario il coinvolgimento di tutti per costruire dibattiti argomentati, ma mai censure.

Solo garantendo a tutti i cittadini la possibilità di esprimersi liberamente possiamo costruire una società più giusta e consapevole e Meta, con questa scelta, sembra voler imboccare questa strada.

Resta da vedere se le altre piattaforme seguiranno il suo esempio o se sceglieranno di restare ancorate ai modelli da censura.

E l’Europa? Che farà? Continuerà la sua battaglia tanto vicina alla censura o seguirà Meta e darà un segno in direzione della democrazia?

Infine, una domanda: il patron di Meta avrebbe fatto la stessa scelta se gli americani non avessero preso a calci le politiche di Joe Biden e avessero eletto Kamala Harris presidente?

Domanda non banale, perché bisogna interrogarsi sui pericoli che corre la libertà se bisogna sperare che vinca un candidato rispetto a un altro perché non sia limitata.
La libertà dovrebbe essere inviolabile, sempre e in qualunque condizione.

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Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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