DALLA VERITÀ TELEVISIVA ALLA GIUNGLA DIGITALE? COSA CI ASPETTA?

No, tranquilli, prima che qualcuno si chieda «chi si crede di essere questo Pasquale Di Matteo?» confesso che ho molto peccato: non mi informo su Facebook e non seguo i guru su YouTube, ma investo circa 3 ore al mattino e 2 dopo cena per informarmi su quotidiani, settimanali, saggi e tomi universitari.

Ogni singolo giorno. C’è chi dorme fino all’ultimo secondo disponibile, io mi sveglio alle 5.30. C’è chi aspetta il Grande Fratello o la serie tv preferita, io leggo e mi documento.

Non scrivo di cose su cui non ho speso del tempo a leggere e studiare. E sì, ho tanti argomenti che mi appassionano. In quest’era degli idioti sapienti in un unico campo, lo so, è una colpa grave, ma tant’è.

Il recente annuncio di Mark Zuckerberg, secondo cui Meta non utilizzerà più i fact-checkers perché considerati semplici censori ideologici, ha scatenato un pandemonio, così come il mio articolo di ieri sull’argomento, che potrai leggere cliccando sul link che ti lascio in fondo all’articolo che stai leggendo.

Molti vedono in questa scelta il preludio di un’era in cui tutti potranno dire qualsiasi cosa, senza filtri. Ma è davvero così? E perché tale reazione è a dir poco ridicola? Analizziamo il tema con un approccio filosofico e sociologico.

INTERNET: IL LUOGO DEL DIBATTITO LIBERO

Internet, e in particolare piattaforme come Facebook, sono nate per dare voce a ogni individuo.

È qui che la visione libertaria di John Stuart Mill risuona con forza: solo nel libero confronto tra opinioni si può sperare di avvicinarsi alla verità, poiché ogni individuo è un universo di pensieri e di argomentazioni.

Chi è il giudice supremo che stabilisce cosa sia vero e cosa no? Secondo Mill, la verità è il prodotto del confronto aperto, non della censura, assunto che è sta alla base della mia filosofia personale.

La censura, al contrario, soffoca il dibattito e favorisce un pericoloso paternalismo epistemico e già Michel Foucault, con la sua critica al potere e al sapere, ci mette in guardia da chi si arroga il diritto di decidere cosa è accettabile pensare.

Nel suo celeberrimo “Storia della follia nell’età classica”, il filosofo francese ci racconta delle “navi dei folli”, cariche di persone giudicate insane di mente, che venivano inviate in Sudamerica, ma ci dice anche che gran parte di quelle persone erano dissidenti politici.

La censura dell’epoca, uccideva o trovava il modo di far sparire chi non si piegava alle narrazioni del potere, quella di oggi ha usato il declassamento o la cancellazione dei post sui social.

Se la società è composta da cittadini liberi, è attraverso la discussione e il confronto che si distinguono le idee valide da quelle infondate, non con il bavaglio. Se, al contrario, ci sono organi di controllo che stabiliscono quale idea sia valida e quale no, la società non è libera.

CHI DECIDE CHI È COMPETENTE?

Il problema della competenza è cruciale.

Sì, se dobbiamo parlare di medicina, ci rivolgeremo a un medico, non a un avvocato.

Ma quando il tema si sposta sull’etica di somministrare un farmaco a un bambino o a una persona sana, la prospettiva cambia. Qui, un avvocato che conosce i diritti umani o un genitore direttamente coinvolto hanno punti di vista altrettanto rilevanti.

Hannah Arendt, nel suo studio sulla “banalità del male”, ci ricorda che l’assenza di dibattito critico è il terreno fertile per l’autorità cieca. Una condizione che abbiamo visto sotto i nostri occhi durante la pandemia, con l’accanimento verso chiunque non sposasse il pensiero unico.

In una società democratica, la legittimità di un’opinione non dipende solo dalla competenza tecnica, ma anche dalla partecipazione di tutti coloro che sono toccati dal problema, perché la complessità di temi etici e politici richiede un approccio inclusivo.

LA FARSA DELLA COMPETENZA TELEVISIVA

Anche perché la percezione della competenza oggi è drammaticamente distorta.

“Se lo dicono in TV, deve essere vero,” diceva mia nonna.

Un tempo, con pochi canali televisivi, i volti che apparivano sullo schermo erano selezionati con cura e perfino pagati per partecipare alle trasmissioni, ora, invece, la moltiplicazione delle piattaforme ha fatto sì che gli sponsor dividano i loro budget su più emittenti e ciò ha costretto le televisioni a nuove forme di incasso per sopperire ai mancati introiti.

Così si è creato un circo mediatico dove chi paga di più ottiene spazio.

Ecco come funzionano molte delle comparsate televisive oggi: con la diminuzione dei finanziamenti pubblicitari per le grandi reti e la proliferazione di emittenti minori, molti programmi invitano come ospiti professionisti che pagano per la loro visibilità.

Anziché caricare un video sul Canale YouTube, vanno in televisione e si costruiscono la notorietà.

Medici, avvocati, ingegneri o giornalisti sborsano migliaia di euro per ottenere interviste e spazi, così chi li vede da casa, abituato al meccanismo selettivo della TV tradizionale, li percepisce automaticamente come autorità nel loro campo.

“Se è sempre in TV, sarà il migliore,” si pensa, proprio come mia nonna.

E così, che si discuta di vaccini o di geopolitica, spesso ritroviamo le stesse facce, non perché particolarmente competenti, ma perché economicamente influenti.

Un esempio che ho verificato in una delle poche volte in cui ero davanti alla tv, immediatamente dopo l’ingresso in Ucraina dei carri armati russi, è quello di un noto virologo e di un divulgatore scientifico apparsi insieme su Mediaset per discutere della legittimità dell’invio di armi a Kiev.

Il virologo, fino al giorno prima, era diventato famoso per le sue opinioni sui vaccini, mentre il divulgatore scientifico era “invitato” in virtù dei suoi trascorsi come divulgatore scientifico.

E la gente da casa? Non si poneva domande: “Se li invitano, sapranno di cosa parlano.”

Perciò, erano esperti anche di geopolitica?

La stessa cosa vale per le pagine dei quotidiani.

La mia mail è piena di offerte per acquistare interviste sulla mezza pagina o pagina intera dei principali giornali italiani, o per ottenere spazi promozionali in trasmissioni TV.

Tutto questo alimenta un circolo vizioso: chi può pagare ottiene visibilità, mentre il pubblico crede ingenuamente di trovarsi di fronte a veri esperti, che, nell’immaginario collettivo, vengono poi davvero ritenuti tali.

IL CORTOCIRCUITO DELLE TESI CONTRAPPOSTE

La pandemia e la guerra in Ucraina hanno evidenziato un fenomeno inquietante: professionisti con le stesse qualifiche esprimono spesso opinioni diametralmente opposte, perciò chi è il depositario della verità?

Il virologo che invita alla prudenza o quello che minimizza? Il geopolitico che sostiene l’invio di armi o chi lo critica?

Secondo Karl Popper, una teoria è valida solo se è falsificabile, tema complesso, lo so, ma il problema non è solo epistemologico: è anche etico e politico.

Quando le opinioni divergono, il valore di una tesi non può essere determinato da un presunto arbitro della verità, ma dalla forza delle argomentazioni. Altrimenti, si cade nella trappola del “totalitarismo della competenza”.

Ed è proprio quanto è avvenuto durante il governo Draghi in Italia e nella gestione dei social network degli ultimi quattro anni.

LA VERITÀ COME PROCESSO, NON COME DOGMA

La democrazia è tale solo se ogni cittadino può esprimere la propria opinione, indipendentemente dal suo titolo di studio o dal settore professionale, senza se e senza ma.

Tornando a Mill, la libertà di parola è il pilastro di una società aperta, in cui chiunque può sbagliare, ma solo attraverso il confronto possiamo scoprire chi ha ragione.

Nel dibattito pubblico, è fondamentale distinguere tra argomenti solidi e panzane, ma questo spetta al pubblico, non a un censore. È il cittadino che deve valutare la coerenza, la logica e la rilevanza di ciò che ascolta o legge.

Altrimenti, a decidere chi deve governare dovrebbe essere un organo che decide chi è migliore e chi dice cose sagge oppure no?

CONCLUSIONI: IL FUTURO DELLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE

Se oggi accettiamo che solo i “competenti” possano parlare, domani potremmo trovarci in una società dove solo i “competenti” potranno votare, candidarsi o decidere del nostro destino.

E chi stabilirà chi è competente? La risposta è già chiara: nessuno dovrebbe farlo.

La libertà di espressione non è solo un diritto individuale, ma un meccanismo collettivo per avvicinarci alla verità e, se questo implica tollerare qualche sciocchezza, è un prezzo che vale la pena pagare.

Come scrisse Evelyn Beatrice Hall, saggista conosciuta con lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre, in una biografia di Voltaire, “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, concetto che fu ripreso anche dal nostro presidente Pertini, che chissà quante volte si sarà rivoltato nella tomba per le politiche di Draghi e la moda dei fact checkers.

Leggi l’articolo sull’addio di Facebook ai fact checkers cliccando qui.

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Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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