LA FABBRICA DELLE ETICHETTE: COME IL POTERE HA TRASFORMATO OGNI CRITICA IN “COMPLOTTO PUTINIANO”

George Orwell avrebbe immaginato un mondo in cui ogni domanda scomoda viene sepolta sotto una montagna di slogan.

Un mondo in cui chi osa dubitare della narrazione ufficiale viene marchiato a fuoco come “traditore”, “agente straniero” o, come accade nel nostro mondo, il preferito degli ultimi anni, “putiniano”.

Benvenuti in quel mondo. Il nostro mondo. Benvenuti nel circo della democrazia postmoderna, dove il fact checking si rivela ciò che è: non uno strumento di verità, ma un’ascia per decapitare il dissenso.

IL MANUALE DEL BUON CENSORE: DA SOCRATE A ZUCKERBERG, L’ARTE DI SILENZIARE CHI NON LA PENSA COME TE

Si inizia con l’insinuare un sospetto. Poi arriva l’etichetta.

Infine, la damnatio memoriae di cui proprio Orwell fa largo uso nel suo celebre 1984, ma che noi, società evoluta e democratica, abbiamo visto applicata, giorno dopo giorno, dal Covid in avanti.

È il rituale antico del potere, riverniciato con il linguaggio progressista del XXI secolo.

Un affare milionario per attori, star e giornalisti, tutti comprati in nome della verità costruita sulle scrivanie di chi impera, come dimostra inequivocabilmente l’affare USAID.

Fondi milionari a ONG “democratiche”, progetti di inclusione trasformati in armi di destabilizzazione.

Ma il vero capolavoro è stato convincere il mondo che chiunque mettesse in discussione queste pratiche fosse un burattino di Mosca, perché queste imposizioni mediatiche di stampo fascista possono contare sulla debolezza dell’uomo medio.

L’uomo medio, infatti, non è in grado di pensare con spirito critico, restando talvolta emarginato, perciò necessita di appartenere a un gruppo che lo identifichi come cittadino modello e non come uno che la pensi diversamente.

Ma torniamo allo scandalo USAID od Orwell, fate un po’ voi.

Prendete il caso dell’Ucraina: giornalisti indipendenti ridotti alla fame senza i soldi di Washington.

O la Georgia, dove 41,7 milioni di dollari hanno comprato non solo elezioni, ma il diritto di chiamare “sovversivi” gli avversari politici.

E mentre i media ucraini, finanziati dagli USA, diffondevano accuse pretestuose contro economisti come Jeffrey Sachs o giornalisti come Tucker Carlson, l’Occidente applaudiva, convinto di combattere il Male Assoluto.

Peccato che il Male, a volte, indossi la maschera del Bene e che quel Bene ci abbia spinti tutti a tifare per chi davvero si è dimostrato essere il male: l’Occidente corrotto e con scheletri nell’armadio che puzzano più di una discarica a cielo aperto.

LA TRUFFA DEL FACT CHECKING: QUANDO LA CENSURA SI FA “PROTEZIONE DELLA DEMOCRAZIA”

I governi che si professano paladini della libertà hanno finanziato, con i soldi dei contribuenti, organizzazioni come la Zinc Network o VoxUkraine, specializzate nell’etichettare come “disinformazione” qualsiasi analisi sgradita.

Così, critiche legittime alla gestione della pandemia, alle politiche ambientali o ai conflitti armati sono finite nel tritacarne del “complotto putiniano”, meccanismi oleati e messi a punto da quella macchina della disinformazione spacciata come “lotta alle fake news”.

E il bello è che questi fact checker, presentati come custodi della Verità, erano spesso legati a lobby potenti: l’industria dei pesticidi, i giganti del tech, le industrie delle armi.

Mentre predicavano trasparenza, lavoravano nell’ombra; mentre gridavano alla propaganda russa, manipolavano i flussi informativi con la complicità di Meta e Google, come abbiamo scoperto mesi fa grazie alle stesse confessioni di Mark Zuckerberg.

Un gioco di specchi in cui l’unica regola imposta era non fare domande.

PERCHÉ I GOVERNI DEMOCRATICI DEVONO SMETTERE DI GIOCARE A DIO PRIMA CHE QUALCUNO SPEGNA LA LUCE

La lezione risulta lampante: ogni strumento di “controllo” nato per proteggere la democrazia si trasforma, inevitabilmente, in un’arma contro lo stesso concetto di democrazia.

Quando lo Stato, o chi per esso, decide cosa è “vero” e cosa è “falso”, non sta difendendo i cittadini, ma se stesso. E quando usa ONG, fondi occulti e leggi ad hoc per zittire le voci critiche, tradisce il principio stesso su cui si fonda, ovvero il potere del popolo, per il popolo.

Si trasforma in quel fascismo tanto odiato, ma che è talmente affascinante che lo applicano appena possibile e in tante forme differenti.

USAID ha finanziato festival transgender e concerti rap in Bangladesh, per fomentare proteste di piazza e disordini, in seguito alla sconfitta elettorale di un candidato filostatunitense; ha elargito denaro per sistemi di irrigazione e per donare cibo, in Afghanistan e in altri paesi, ma con lo scopo di controllare le risorse idriche e per vantare un’influenza sulle popolazioni locali.

Ricordate i racconti dei nostri nonni? Quanto fosse buona il “cioccolato degli americani”?

Allo stesso modo, i programmi di fact checking e la presunta “lotta alla disinformazione” sono stati lo scudo dietro cui nascondere operazioni di ingegneria sociale.

Persino le battaglie sacrosante per i diritti LGBTQ+ o a favore dell’ambiente sono state strumentalizzate per creare caos, dividere comunità, rovesciare governi, sempre a favore delle mire americane.

LA RIVOLUZIONE INIZIA DALL’AMMISSIONE: PER UN’ETICA DELL’UMILTÀ NELLA POLITICA

Forse è ora di ammettere l’amara verità: nessuno ha, né potrà mai avere, il monopolio della verità.

Non potranno averlo i governi né i fact checker né i media mainstream.

L’unica legge che dovremmo invocare non è quella che vieta la “disinformazione”, ma quella che obbliga i potenti e i giornalisti a rispondere delle loro menzogne.

A restituire i soldi spesi per corrompere, censurare, manipolare; a pagare i danni di chi ha subito tali politiche e comportamenti. A guardare in faccia chi hanno chiamato “nemico” solo perché aveva il coraggio di pensare.

E se davvero vogliamo salvare la democrazia, dobbiamo iniziare da qui: smantellare non solo le agenzie opache come l’USAID, ma l’intera architettura del controllo mediatico.

Vietare ogni forma di finanziamento pubblico a gruppi che si arrogano il diritto di decidere cosa è “lecito” dire.

Restituire alla società civile il suo ruolo di cane da guardia, non di esecutore di ordini.

IL FUTURO È DI CHI OSA CHIEDERE “PERCHÉ?”

Alla fine, resta una domanda: possiamo ancora permetterci il lusso della fiducia nelle istituzioni e nel giornalismo mainstream?

Dopo anni di guerre basate su prove falsate e tesi diffuse a suon di propaganda, di pandemie gestite con opacità, di elezioni e sommosse pilotate da soldi stranieri, la risposta sembra scontata.

Eppure, sono convinto esista ancora una speranza. Perché ogni volta che qualcuno rifiuta l’etichetta, ogni volta che sfida il mantra del “pensa come noi o sei un nemico”, riaccende una fiammella di libertà.

E non siamo così pochi come la propaganda vorrebbe far credere.

Le leggi di cui abbiamo bisogno non sono quelle che limitano il dibattito, ma quelle che, al contrario, lo proteggono e che lo favoriscono.

Non sono quelle che impongono silenzi, ma quelle che gridano nei contraddittori.

Sono quelle che vi esortano a parlare e a dire la vostra, nel pieno rispetto delle basi della democrazia.

Perché solo nella cacofonia delle idee, persino in quelle più scomode, possiamo ritrovare il senso di una democrazia che non sia solo un’etichetta vuota.

E a chi ancora brandisce il “fact checking” come una spada, ricordiamo che la verità è figlia del tempo, non dell’autorità. O, per dirla con un sarcasmo più terra terra: se davvero avete ragione voi e siete convinti di avere la verità in tasca, perché avete così paura di perdervi in un dibattito?

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Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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