IL PARADOSSO DEL PROGRESSO: ADULTI DEL FUTURO IGNORANTI E IMMATURI
Ogni rivoluzione tecnologica porta con sé un duplice aspetto. Da un lato, promette di liberare gli uomini da lavori onerosi, dall’altro, rischia di provocare dei problemi di dipendenza a lungo termine.
Oggi, le intelligenze artificiali non sono più soltanto strumenti. Non sono più solo software, come quelli che ci hanno agevolato nei calcoli e nella scrittura, evitandoci di svolgere ogni cosa a mano, ma sono estensioni invasive del nostro pensiero.
Possono persino pensare al posto nostro.
Scrivono, calcolano, creano e possono azzerare la fatica dell’apprendimento.
Ricordi le tante ore di studio passate a imprecare per una versione di greco che non riuscivi a svolgere? Quando cercavi nel pesantissimo “Rocci” un aiuto che non arrivava mai?
Era snervante, a tal punto da piangere.
Eppure, quella fatica non era una punizione, ma il terreno dove germogliava l’apertura mentale.
E chi ha tradotto una versione di greco con il “Rocci” tra le mani sa cosa significhi lottare con un testo, annodare i neuroni per decifrare un periodo, sentire la mente aprirsi come un fiore ai raggi del sole.
Era un rito di passaggio, un allenamento alla complessità.
Oggi, invece, un adolescente digita una domanda e ottiene una risposta perfetta, ma ciò induce a credere di non dover più imparare a pensare, perché la comodità di avere subito ogni risposta uccide la curiosità.
LA SCUOLA COME PALESTRA DELLA MENTE: DAL GRECO ANTICO ALL’ILLUSIONE DEL TUTTO-SUBITO
Prima del 1969, il Liceo Classico era l’unica scuola che potesse definirsi un ascensore sociale, ma soprattutto un tempio per la maturazione della mente.
Due anni di ginnasio forgiavano caratteri e aprivano la mente come nessun’altra scuola poteva: il greco antico non era una lingua morta, ma un labirinto di logica, un esercizio continuo per la mente che era il massimo stimolo del pensiero nel sistema scolastico italiano.
Chi lo affrontava imparava a cadere, a rialzarsi, a cercare strade alternative. Imparava a piangere e ad arrabbiarsi di fronte all’impotenza, costringendosi a cercare in sé capacità che sembravano impossibili.
Non era solo studiare e imparare a pensare, ma era una metafora della vita, fatta di continui problemi, più o meno gravi, da affrontare e con cui imparare a convivere.
Non a caso, soltanto i diplomati al Liceo Classico potevano accedere a tutte le facoltà universitarie.
Chi si diplomava al Liceo Scientifico, non poteva accedere a Lettere e Filosofia.
I periti accedevano solo a Ingegneria, chi si diplomava a Ragioneria poteva proseguire con Economia e Commercio, ma solo il Classico consentiva l’accesso a tutti i corsi universitari, proprio in virtù dell’apertura mentale raggiunta dagli studenti formati con quel percorso di studi.
Poi, la legge Codignola del 1969 democratizzò l’accesso all’università.
Oggi, il problema non è la democratizzazione, ma la deresponsabilizzazione.
Le AI offrono scorciatoie che possono diventare nefaste per il corretto sviluppo cognitivo degli individui, per colpa di compiti risolti in un click, saggi generati in secondi, problemi matematici decifrati senza sudore.
Ma senza sudore, non c’è crescita e non maturano competenze. Senza errori, non c’è maturità.
Di fatto, le AI amplificano l’errore più grande che possa commettere un genitore, che è evitare al figlio ogni problema e ogni criticità.
LA TRAPPOLA DELLA DIPENDENZA: QUANDO L’AI DIVENTA UNA PROTESI COGNITIVA
Le generazioni come la mia hanno costruito competenze prima dell’avvento delle AI.
Un copywriter formatosi prima del 2022 conosce la semiotica, la retorica, la psicologia del consumatore, la sociologia, perché le ha studiate.
Oggi, un algoritmo può generare slogan accattivanti, ma non sa cosa significhi ascoltare il mondo, interpretarne le sfumature, perciò chi si avvale di questi strumenti tecnologici non ha idea di cos’abbia partorito se non ha studi e competenze grazie alle quali giudicare.
Chi ha studiato senza AI, invece, possiede una cassetta degli attrezzi mentale, per cui sa adattarsi, immaginare, fallire, rialzarsi e rielaborare. Può attingere a una vasta gamma di conoscenze da applicare al meglio a ogni evenienza.
I giovani di oggi, invece, rischiano di diventare dipendenti dalla tecnologia.
Infatti, se domani il sistema elettrico crollasse, non avrebbero gli strumenti per sopravvivere intellettualmente.
Senza corrente, senza uno schermo, sarebbero naufraghi in un oceano di impotenza.
Soli, su un palco, di fronte alla gente, non saprebbero rispondere a nessuna domanda né sarebbero in gradi di presentare alcunché.
IL MITO DELL’EFFICIENZA: PERCHÉ LA VELOCITÀ NON È SINONIMO DI SAPIENZA
La società contemporanea esalta l’efficienza e la velocità, tuttavia dimentica che la lentezza è madre della profondità del ragionamento.
Un selfie generato da AI può essere perfetto, ma non racconta una storia.
Un testo scritto da ChatGPT può essere impeccabile, ma non ha cicatrici, non porta traccia di un’anima, non nasce da un vissuto e non dona vagiti di esperienze di un autore in carne e ossa.
Le competenze si acquisiscono attraverso la ripetizione, la frustrazione, la scoperta.
Delegare tutto alle macchine significa rinunciare a imparare a pensare e, soprattutto, a plasmare la propria identità.
Un medico formato con l’AI saprà diagnosticare, ma avrà mai imparato ad ascoltare il silenzio tra le parole di un paziente?
Un avvocato aiutato da algoritmi conoscerà le leggi grazie a uno schermo che gliele ricorda, ma capirà il peso di una lacrima in tribunale? E se non ci fosse più corrente, chi salverebbe vite umane e chi un innocente dalla gogna?
VERSO UN NUOVO UMANESIMO: EDUCARE ALLA RESILIENZA NELL’ERA DIGITALE
La soluzione non è demonizzare la tecnologia, ma ridefinirne i confini.
Le AI devono essere strumenti, non sostituti. La scuola deve tornare a essere un laboratorio di fallimenti, dove si impara cadendo.
Insegnare il greco antico forse non è più l’unica soluzione, ma possiamo reintrodurre discipline che obblighino a pensare in modo non lineare: filosofia, arte, sociologia, psicologia.
Dobbiamo chiedere agli studenti di “sporcarsi le mani della mente”, di provare a lottare con problemi irrisolvibili, di scrivere temi a mano, senza correttori automatici e senza Chat GPT a scrivere al tuo posto.
Dobbiamo chiedere loro di leggere, leggere e leggere ancora, che fa tutta la differenza del mondo.
Solo così potranno sviluppare anticorpi contro la pandemia di idiozia che si verificherà a breve. Perché non sarà più confinata al Bar Sport o a qualche tavolata in trattoria.
CONCLUSIONE: SALVARE L’UMANO PRIMA CHE DIVENTI UN RELITTO
Il rischio non è solo quello che i giovani diventino “perfetti idioti”, ma che diventino estranei a sé stessi.
La posta in gioco non è culturale, ma esistenziale.
Le macchine possono replicare processi, ma non possono desiderare, dubitare, commuoversi. E quand’anche un giorno riuscissero a farlo, sarebbero dei sostituti degli uomini e di altri competitor.
L’educazione deve tornare a coltivare ciò che ci rende umani, cioè la capacità di meravigliarsi, di interrogarsi, di creare con fatica e amore. Soprattutto, la capacità di pensare, analizzare, criticare, mettere in discussione e avere dubbio.
Se perdiamo questo, non saremo vittime delle AI, ma complici della nostra stessa estinzione.
IL FUTURO È UNA SCELTA, NON UN ALGORITMO
Ogni volta che preferisci una risposta immediata alla fatica della ricerca, dello studio e del sacrificio, stai bruciando la possibilità di apprendere, di maturare e di crescere.
Le AI non sono nemiche, ma senza adulti acculturati e consapevoli, nonché dotati di mente strutturata, senza la nostra tenacia, la nostra imperfezione, la nostra vulnerabilità, saranno solo specchi vuoti.
Scegliamo di restare umani e aiutiamo i nostri giovani a non uccidere la specie.
Scegliamo di restare incompleti e perfettibili, perché è nell’incompletezza che fiorisce lo stimolo ad apprendere, ad evolvere.
Lo stimolo a continuare la vita.
CHI HA UCCISO PASQUALE DI MATTEO? LEGGI I PRIMI CAPITOLI DI “LE MENTI INVISIBILI”
