Non è la prima volta che il mondo rischia una guerra mondiale che porterebbe alla catastrofe nucleare: nel 1962, il mondo fu a un passo dalla fine e solo grazie alla lungimiranza di chi governava Stati Uniti e Russia si evitò il disastro nucleare.
di Pasquale Di Matteo
Nel 1962, il mondo visse tredici giorni di tensione crescente che spinsero l’umanità a un passo dal punto di non ritorno, tanto che il ministro della Difesa dell’amministrazione Kennedy, Robert Mc Namara, affermò di aver pensato che il 27 ottobre 1962 sarebbe stato l’ultimo sabato della sua vita.
Mentre in Italia moriva Enrico Mattei, a seguito di un’inspiegabile esplosione dell’aereo su cui viaggiava, gli occhi del mondo erano puntati sulle navi mercantili dell’Unione sovietica in rotta verso Cuba e su quelle della marina militare degli Stati Uniti pronte a bersagliarle con i siluri.
Oggetto del contendere erano alcuni missili sovietici posizionati a Cuba.
MOSCA VS WASHINGTON: LE CAUSE
Tutto cominciò nel 1959, quando la rivoluzione cubana cacciò il dittatore filoamericano, Fulgencio Batista, e portò al potere Fidel Castro.
Gli Stati Uniti tentarono di attuare un colpo di stato per riportare il dittatore Batista al potere, con l’invasione della Baia dei Porci, ma l’operazione fallì. Allora introdussero un embargo che resiste ancora oggi e che evita a Cuba il commercio delle sue ricchezze con il mondo filoamericano, a cominciare dalla canna da zucchero.
Il governo castrista fu spinto tra le braccia della sfera sovietica, con cui strinse forti legami commerciali e politici e a Kruscev venne offerta l’occasione di pareggiare il bilancio strategico con gli Stati Uniti, il cui schieramento nucleare in Turchia minacciava molte città della Russia e di altre repubbliche sovietiche.
Fu così che l’URSS decise di stanziare i missili a Cuba.

Il 14 ottobre 1962, un aereo spia americano U-2 fotografò un missile in corso di installazione nell’isola caraibica. Il presidente Kennedy fu informato il 16 ottobre, quando compose in fretta un comitato esecutivo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, che riuniva capi politici e militari, e che ebbe un ruolo centrale nella gestione della crisi.
A farne parte, oltre al presidente John Kennedy, vi erano il ministro della giustizia, Robert Kennedy, il vice presidente Lyndon Johnson, il segretario di Stato Dean Rusk, il ministro della Difesa, Robert Mc Namara, e il presidente del consiglio dei capi di Stato maggiore, il generale Maxwell D. Taylor.
La decisione del comitato fu unanime: gli Stati Uniti non avrebbero permesso l’installazione dei missili sovietici a Cuba. Tuttavia, la posta in gioco era alta. L’Unione sovietica era una superpotenza atomica e non si poteva trattare come un qualunque paese marginale.
D’altro canto, concedere l’ubicazione dei missili a Mosca avrebbe leso il prestigio internazionale degli Stati Uniti, mettendo in crisi la sua leadership mondiale.
Un po’ ciò che pensa il Cremlino oggi con l’allargamento della Nato ai suoi confini, solo che noi occidentali pecchiamo spesso di arroganza e di presunzione, perciò sosteniamo che qualcosa sia giusto o sbagliato soltanto quando ci fa comodo.
MOSCA VS WASHINGTON: ALTA TENSIONE
Il presidente Kennedy si trovò oppresso tra due conseguenze catastrofiche per il suo paese: da un lato, l’indebolimento del prestigio internazionale, dall’altro il pericolo di scatenare una guerra nucleare.
Tra i consiglieri si crearono fazioni contrapposte, tra chi suggeriva la via della mediazione e i militari che spingevano per lo scontro militare, capeggiati dal generale Curtis E. Lemay, capo di Stato Maggiore dell’aviazione e distruttore delle città giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il presidente Kennedy prese tempo, respingendo l’opzione militare immediata. Preferì costituire un cuscinetto intorno a Cuba, una specie di barriera per evitare l’ingresso alle navi nelle sue acque. Una sorta di quarantena con cui gli USA obbligarono a ispezione qualunque nave, di qualsiasi nazionalità, che si avvicinasse all’isola.
Quarantena non è un termine utilizzato a caso, ma fu quello scelto dall’Amministrazione americana anziché utilizzare la parola “blocco”, la quale, sebbene più pertinente a quanto fu effettivamente, sarebbe stata un vero e proprio atto di guerra e avrebbe messo in crisi i rapporti sia con Cuba, sia con la comunità internazionale.
Gli americani e il resto del mondo furono informati della vicenda soltanto il 22 ottobre, quando Kennedy pronunciò un discorso in televisione, annunciando anche il blocco navale. I toni furono molto duri, non diversi da quelli di Putin nei confronti dell’Ucraina e della Nato, nel 2022.
«La politica di questa nazione sarà quella di considerare ogni missile nucleare lanciato da Cuba contro qualunque nazione dell’emisfero occidentale come un attacco lanciato da Mosca contro gli Stati Uniti, che provocherà una rappresaglia con ogni mezzo nei confronti dell’Unione Sovietica.»
Parole durissime, che richiamarono alla memoria le distruzioni di Nagasaki e Hiroshima. Il mondo fu preda della fibrillazione. Si registrarono ovunque accaparramenti di cibo e la tensione aumentò alle stelle.
Il 24 ottobre, intanto, navi sovietiche cariche di prodotti di ogni genere giunsero fino al limite del blocco navale americano. Furono attimi d’angoscia. Se non si fossero fermate, o se fosse volato un colpo, un unico colpo, sarebbe esplosa una catastrofe nucleare.
Ma quasi tutte le navi fecero dietrofront, probabilmente, quelle che trasportavano armi, mentre le altre si sottoposero all’ispezione da parte degli americani.
Fu un successo per John Kennedy nei confronti dell’apparato militare americano, che lo vedeva come un presidente debole e inadeguato a gestire la questione.
Tuttavia, si trattava di un primo passo. Restavano ancora i missili stanziati sul territorio di Cuba. Furono intensificati i voli ricognitivi sul territorio cubano da parte dell’aviazione americana e il 27 ottobre si arrivò a un nuovo apice della crisi.
Fu abbattuto un U2 in ricognizione. La risposta fu l’immediata messa in allerta di una forza d’invasione pronta a imbarcarsi per invadere l’isola.
Ma era già in atto dal giorno precedente una linea di comunicazione tra la Casa Bianca e il Cremlino. Kruscev aveva già dato parere favorevole al ritiro dei missili sovietici dal territorio cubano, in cambio dell’assicurazione degli USA che non avrebbero invaso Cuba.
Nonostante il clima sempre più teso, dopo l’abbattimento dell’U2, i colloqui non si interruppero e restò aperta la pur fragile linea di comunicazione tra Washington e Mosca.
MOSCA VS WASHINGTON: GLI ACCORDI
Oltre all’assicurazione di non invadere Cuba, per rimuovere i missili sovietici dall’isola, Kruscev chiese in cambio anche lo smantellamento degli armamenti americani stanziati in Turchia.
Kennedy accettò, anche se ufficialmente dichiarò come controparte soltanto l’accordo di non invadere Cuba.
Non poteva mostrare debolezza nei confronti dei guerrafondai che soffiavano sui venti di guerra.
I decenni successivi hanno mostrato come il mondo scampò alla guerra atomica grazie allo spessore dei due presidenti, certamente più lungimiranti dei rispettivi consiglieri, soprattutto quelli riconducibili agli apparati militari, convinti ciascuno della propria supremazia. Una supremazia che avrebbe annientato gran parte della razza umana e reso il pianeta inospitale per decenni. Forse per secoli.
Né Kennedy, tanto meno Kruscev, volevano la guerra. Anzi, proprio da questo primo contatto tra i due presidenti, nel 1963 fu installata la cosiddetta linea rossa tra Washington e Mosca, in modo che i leader potessero parlarsi direttamente in caso di eventi gravi. Senza la necessità di trovare intermediari e sotterfugi per comunicare.
MOSCA VS WASHINGTON: IL MITO DI KENNEDY
Per decenni si è costruito un mito intorno alla figura di Kennedy, come spesso accade agli eroi morti sul campo. John Kennedy, infatti, è uno dei quattro presidenti assassinati in carica. Gli altri furono: Abramo Lincoln, James Garfield, William McKinley.
Un mito che, tuttavia, andrebbe analizzato. Si individuerebbe che, proprio con Kennedy, si ha a che fare per la prima volta con un politico in cui prevale l’immagine sulla sostanza, ha più importanza la forma del contenuto.
Era un uomo affascinante, accostato ad amori e tradimenti che, contrariamente a quanto accadrà ad altri, accrescono il suo magnetismo.
Kennedy fu il primo presidente dell’era moderna a diventare protagonista mediatico, politico e uomo di spettacolo al tempo stesso.
Oggi è prassi che il successo di un leader dipenda non soltanto dalla sua capacità, ma anche da quella del suo staff di pubblicitari, di impressionare, di arrivare alla gente, anche grazie alla complicità di media compiacenti.
Kennedy non era un generale che si era fatto onore in battaglia, né aveva ottenuto successi impressionanti in altri campi. Aveva ottenuto una medaglia al valore nel Pacifico, ma la sua vera fortuna poggiava sulla sua provenienza da una famiglia che aveva era diventata un mito durante gli anni del proibizionismo, probabilmente anche grazie ad affari poco cristallini.
La sua figura fu costruita intorno al suo fascino. Era bello, elegante, dai modi gentili. Aveva una moglie incantevole grazie alla quale poteva catturare gli interessi di uomini su cui non poteva fare colpo.
Era attorniato da uno staff competente, tra cui Richard N. Goodwin e Ted Sorensen, che confezionarono gran parte delle sue frasi celebri, tipo: «Non chiedetevi ciò che il Paese può fare per voi, ma ciò che voi potete fare per il Paese».
Fu il suo staff a costruire il suo mito. E fu lo stesso staff a costruire l’immagine di pacifista, puntando tutto sul sangue freddo dimostrato con l’affare dei missili sovietici schierati a Cuba.
Un pacifista, anche se con la sua presidenza, si decise di accelerare la corsa agli armamenti nucleari che in quel periodo superarono di tre volte quelli dell’URSS.
L’immagine che gli costruirono attorno fece passare in secondo piano il nepotismo, il clientelismo e il grande giro di corruzione che caratterizzò la sua amministrazione. In secondo piano passarono anche i contatti con il mafioso Sam Giancana, affiliato a Cosa Nostra.
Paragonato a lui, il presidente ricordato soltanto per lo scandalo Watergate, Nixon, fu molto più pacifista e guidato da spirito di democrazia: non aveva legami con la mafia, fece di tutto per ritirare le truppe americane dal Vietnam, cercò di tendere la mano alla Cina per aprire un dialogo che distendesse i rapporti internazionali di mezzo mondo.
Eppure, non era bello e sorridente come Kennedy e i suoi autori non seppero mai sfornare frasi virali come i consiglieri di Kennedy.
Anche Kruscev è sempre stato accostato alla figura del buono. Il primo russo buono. Il primo che non si cibasse di bambini.
Kruscev aveva un’aria da brav’uomo, bonacciona, contadina. Ispirava fiducia. Aveva la consuetudine di citare antichi proverbi russi ed ebbe l’ardire di sfilarsi una scarpa all’Onu per sbatterla sul tavolo. Un gesto che lo avvicinò molto alle persone. Un presidente non si comporta così. Le persone normali che perdono le staffe sì.
Eppure, l’umano e buono Kruscev soppresse nel sangue l’insurrezione ungherese.
Entrambi, Kennedy e Kruscev, sembrano miti pieni di retorica e poco altro, ma, nel caso dei missili a Cuba, espressero quanto di meglio potessero fare due grandi uomini. Fosse anche l’unica cosa positiva fatta, per fortuna del mondo intero, scelsero il momento giusto per farla.
Per ironia della sorte, la loro decisione di evitare la guerra nucleare fu il motivo della loro fine. Almeno ufficialmente. Due anni dopo la crisi missilistica di Cuba, un colpo di Stato a Mosca, all’interno del Politburo, decretò la fine politica di Kruscev. In gran parte dovuta al danno d’immagine arrecato al prestigio sovietico dall’esito della vicenda cubana. Mentre negli Stati Uniti, secondo la versione ufficiale dell’assassinio di Kennedy, un giovane comunista si sentì indignato per com’era stato trattato Castro. Lee Harvey Oswald. L’uomo che, secondo una delle versioni ufficiali più lacunose e nebulose della storia, avrebbe freddato il presidente a Dallas, il 22 novembre del 1963.
MOSCA VS WASHINGTON: TRA PUTIN E BIDEN
Comunque la si pensi, fu solo grazie ai nervi saldi e alla voglia di evitare lo scontro di entrambi che, in quell’ottobre del 1962, si evitò la catastrofe planetaria.
Una catastrofe che oggi, invece, si fa più vicina. Contravvenendo ai patti stipulati tra Regan e Gorbaciov e rinnovati in seguito all’unificazione delle due Germanie, la NATO si è spinta sempre più a Est, fino ad attrarre l’Ucraina. La Russia di Putin si è trovata in una situazione analoga a quella degli USA di Kennedy nel 1962. Solo che, durante le trattative nelle settimane precedenti l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, non c’è mai stata vera volontà di dialogo tra le parti in campo.
Putin ammassava il suo esercito e preparava il paese alle ritorsioni finanziarie, economiche e belliche dell’Occidente.
I paesi della NATO, come al solito allineati alla linea americana, non avevano alcuna voglia di accogliere le proteste della Russia, che avevano gli stessi toni di quelle di Kennedy nel 1962, quando impose che un paese sovrano non ospitasse armi in casa propria soltanto perché erano del nemico.
Allo stesso modo, Putin non vuole la NATO in Ucraina, cosa che sembrerebbe contraria al diritto internazionale, né più, né meno, di quanto non fosse contraria al diritto internazionale la pretesa degli Stati Uniti di Kennedy.
Oggi, Putin è considerato pazzo, perché solo un pazzo dà il via a una guerra d’invasione a quel modo. Eppure, Kennedy stava per dare lo stesso ordine d’invasione il 27 ottobre 1962, in seguito all’abbattimento dell’U2. In quel caso, appoggiato dalla NATO e dai paesi che oggi condannano fermamente quella pretesa.
Putin è un folle per aver agito come agì Kennedy, che resta un mito per tanti.
Forse perché, dall’altra parte, Kennedy trovò Kruscev, che fu lungimirante e saggio, mentre Putin si è trovato di fronte politici occidentali più impegnati a mostrarsi forti con la propria opinione pubblica che lungimiranti. Più pronti a provocare il nemico che a ricordare il pericolo del lancio di missili nucleari.
Putin e Biden non sono certamente Kennedy e Kruscev, purtroppo. E Zelensky non è niente di più di showman che interpreta al meglio il ruolo di burattino degli Stati Uniti. Così come a restare la stessa è la comunità internazionale, intellettualmente immobile e fossilizzata sulle scelte dell’America, le cui guerre sono sempre accettate, giustificate, ridimensionate. Anche quando provocano stragi di civili.

Purtroppo, ancora una volta, i popoli vengono messi all’angolo e sono appesi alle scelte di pochi potenti. I popoli non vogliono la guerra. Non la vuole il popolo russo, non quello ucraino e nemmeno quelli occidentali. Tuttavia, tra il figlio del presidente americano che ha interessi nei gasdotti ucraini, la Casa Bianca che nella guerra ha fondato gran parte delle fasi espansive della storia della propria economia, e gli alleati, per lo più deboli, e senza una linea precisa, il baratro sembra più vicino di quanto non fu nel 1962.
E non si vedono Kennedy o Kruscev all’orizzonte.
Articolo di Pasquale Di Matteo.

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